
È l’attore e regista americano Matt Dillon il presidente di giuria di “Alice nella città”, sezione autonoma e parallela alla Festa del Cinema di Roma, dedicata alle giovani generazioni. Una giuria composta dalla produttrice Camilla Nesbitt, l’attrice Anna Foglietta, i registi Gabriele Mainetti e Claudio Giovannesi, gli sceneggiatori Giordano Meacci e Francesca Serafini, che assegneranno il premio Camera d’Oro Taodue 2016 alla migliore opera prima e seconda, scelta tra le 12 in concorso. Dillon, 52 anni, nella sua carriera di attore ha saputo spaziare dalla commedia – In & Out (1997), Tutti pazzi per Mary (1998) – ai ruoli drammatici, come quello in Crash – Contatto fisico (2004), per cui ha ottenuto una nomination all’Oscar. Da regista, invece, la sua unica opera è City of Ghosts (2002), che ha diretto e interpretato nella parte di un truffatore newyorkese che si rifugia in Cambogia. Al festival di Roma lo vediamo in un’ulteriore veste, del tutto inedita: «non sono mai stato il presidente di nulla – ha commentato Dillon – è difficile ragionare in termini di concorso, istituire confronti tra artisti e dire se un prodotto è migliore di un altro. Alla fine però dovremo scegliere un vincitore che partirà proprio da qui per i suoi futuri progetti: personalmente quello che cerco in un film è l’autenticità. Si tratta di opere prime e seconde, io stesso ho realizzato un’opera prima e mi sto cimentando con una seconda prova da regista. Sono tutti film che riguardano i giovani, le loro difficoltà, e questo mi fa pensare anche ai film che ho fatto. Il livello qualitativo è ottimo, elevatissimo, e da quest’esperienza da presidente di giuria sto imparando molto». Il secondo lavoro che ha in cantiere come regista è un documentario biografico, sul quale ha dichiarato: «Mi interessa esplorare argomenti che trovo avvincenti e appassionanti, per questo sto lavorando a un documentario che per ora si chiama “El Gran Fellove”, dal nome del primo musicista jazz afro-cubano. Si tratta di materiale che avevo raccolto nel 1999, mentre stava incidendo un disco, e che non avevo mai utilizzato. Poi tre anni fa ho deciso di riprendere in mano questo progetto, nutrendo un forte interesse verso la musica, e ho deciso si esplorare questo tema in maniera diversa. Ho imparato e sto imparando che fare i documentari è in assoluto la cosa più difficile. Noi siamo quello che siamo perché dipendiamo dalle circostanze della vita in cui ci troviamo, anche da questo nasce il mio interesse verso questo documentario. Pur non trattando di me, comunque è molto personale, in quanto tratta di un argomento per me importante. Mi identifico con questa figura di uomo nato povero, nero, e che non riusciva a sfuggire alla situazione di miseria di Cuba, nonostante il suo grande talento. Eppure ha saputo andare oltre le avversità, e per questo è stato soprannominato “el gran fellove”: cantava la propria grandezza, pur essendo una persona molto modesta. Proprio per questo dobbiamo ricordare la strada che abbiamo percorso, evitando confronti con gli altri, che è un modo di ragionare che non mi appartiene. Io mi reputo molto fortunato per il mestiere che faccio: essere un attore vuol dire fare il creativo di professione».