

Per un vero appassionato di sport la sola parola Atlanta richiama alla mente avvenimenti emozionanti e unici che si susseguirono nelle Olimpiadi del 1996, a partire dall’inaugurazione affidata a Muhammad Ali. Ma furono anche quelle in cui Carl Lewis si aggiudicò la sua quarta medaglia d’oro consecutiva nel salto in lungo, quelle in cui Yuri Chechi vinse agli anelli dopo un infortunio al tendine d’Achille che lo aveva tenuto lontano dai palcoscenici internazionali, e quelle in cui il record di Pietro Mennea sui 200 metri venne battuto da Michael Johnson.
Duecento metri. La distanza che mi riporta a oggi, a me che aspetto al bar di un tavolino il


mio amico Fabio, Campione del Mondo di Dragon Boat ad Atlanta nei 200 metri in barca da 20. E a lui che arriva ancora carico di emozioni, quasi incredulo, ma con la voglia di tirare fuori tutta la gioia per un risultato così importante: il primo oro italiano in questa disciplina. «Io non faccio un’intervista, però», mi aveva già avvertito. E no, infatti questa non è un’intervista a Fabio, è il racconto di una squadra iridata attraverso le sue sensazioni.
Insomma, io sono seduta al bar e penso: cosa si dice a un Campione del Mondo? Come ci si congratula? Poi Fabio arriva e tutto passa: siamo sempre due vecchi amici che si stanno prendendo un caffè. Gli chiedo di spiegarmi un po’ di tecnicismi, in quale categoria ha gareggiato, come funziona la selezione per la nazionale, ma poi ci lasciamo travolgere dalle emozioni, lui soprattutto. «Me lo sentivo – dice – quel giorno era nell’aria. Avevamo preparato questa gara come “La Gara”. E le sensazioni erano positive. Hai presente quei giorni in cui senti che tutto funziona?». Ecco, quel giorno era domenica, l’ultimo del campionato. Un’attesa lunga, fatta di sveglie all’alba, di improvvisate del cugino da Dallas, di bronzi sfiorati e vinti, di messaggi al fratello, di fusi orari da comunicare a casa per vedere la diretta delle gare, di tensioni nella squadra, di passeggiate nel parco olimpico «ma senza salire sul podio, per scaramanzia». E poi finalmente domenica. Prima della barca da 20, Standard boat, entra in acqua quella da 10, Small boat, sempre sulla distanza dei 200 metri. Una gara bella, tenuta fino alla fine e che vale un argento alla squadra italiana. «Lì ho capito che era fatta», mi ha detto Fabio. Perché “La Gara”, quella sulla barca da 20, era stata preparata ancora meglio.
Dopo alcune ore tornano in acqua, sia chi aveva gareggiato prima ed era arrabbiato per quell’oro sfumato, sia chi come lui in barca da 10 non era salito ed era in cerca di riscatto.


Un’alchimia perfetta. Il resto è ormai stato narrato in tutti i suoi dettagli tecnici. Quel che piace raccontare a me, ora, sono due cose: il tempo e i ringraziamenti. L’Italia vince l’oro fermando il cronometro a poco più di 43’’, meglio del 44 fatto dai Russi nei precedenti campionati ma assenti ad Atlanta (non si sa bene se per mancanza di visto o per la solita paura dei controlli antidoping annunciati qualche giorno prima). Segno che quell’oro è veramente tutto italiano. Non c’è assenza che tenga. Oltretutto, un tempo fatto col vento a sfavore. L’altra cosa sono appunto i ringraziamenti, quelli che ha fatto ai suoi genitori (in quei giorni si festeggia il compleanno del padre), a suo fratello, alla squadra ma soprattutto a Mara, la compagna di una vita e mia amica da altrettanto: «Senza di te non sarebbe stato possibile».
Chiudo così, con un po’ di commozione negli occhi, per i bei racconti di sport che ovviamente si intersecano a racconti di vita. Bravi ragazzi.

