Nonostante le cifre ridicole spese sul mercato dai club più ricchi al mondo, l’importanza del gioco in campo rimane fondamentale a discapito dei numeri. Il denaro che è circolato in questi ultimi anni attorno al calcio si avvicina sempre di più alla linea di confine che separa lo show per le masse dalla rivolta collettiva. L’unico fondamentale pilastro su cui riponiamo le nostre speranze è, per l’appunto, il gioco del calcio sul campo. E’ l’eterna lotta che si consuma ogni domenica – o almeno così era un tempo, oggi si gioca anche di sabato a mezzogiorno pur di far guadagnare le pay tv – e determina l’umore del tifoso per l’intera settimana. Lo scopo è semplice: fare un gol in più dell’avversario.
Dopo questa inattaccabile affermazione, si indignano i cosiddetti nostalgici:”eh ma il bel gioco, le geometrie, i dribbling, le diagonali, il tiki-taka sono più importanti della mera vittoria”.
Tutto molto bello, ma anche no.
Ruota tutto attorno al gol e questo è compito degli attaccanti.
Di solito sono i calciatori più amati e ricordati nel tempo ed ogni club conserva il ricordo dei bomber più prolifici della propria storia.
Anche a Roma, sponda biancoceleste, questo accade. Ogni tanto allo stadio si sentono ancora cori su Beppe Signori, si vedevano bandiere tedesche esposte in Curva Nord durante la militanza di Klose in biancoceleste – e mi piace credere che fossero per lui e non per altro – e chiaramente resiste il ricordo di Chinaglia che si ravviva di generazione in generazione. Nonostante ciò, negli ultimi anni, la Lazio non ha avuto nessun bomber da 20 gol a stagione, quello in cui sperare se le partite si mettono male, quello da esaltare ad ogni gol. Con tutto il rispetto rientrano nella fascia media i vari Rocchi, Klose – grande uomo e professionista, quante lacrime versate al suo addio, ma non sempre affidabile – e Pandev, ormai considerato un traditore dalle parti del Raccordo.
Nella travagliata estate del 2016, però, dopo il rischio della sommossa popolare biancazzurra, Lotito si trova costretto a spendere per un attaccante. La scelta ricade su Ciro Immobile, che, dopo le deludenti stagioni tra Germania e Spagna ed un breve ritorno nella Torino granata, corrisponde perfettamente al modello di attaccante in cerca di riscatto. Questo è un passaggio importante, perché Ciro troppe volte si era sentito dare per “finito” o “flop” dalla terra natia. Lo spirito di rivalsa della Lazio, di Immobile e del suo mister Simone Inzaghi hanno dato l’inizio ad un cammino emozionante. Oggi Ciro è l’idolo del popolo laziale. E’ un attaccante rapido, scaltro, tecnico, opportunista, acrobatico.
E’ completo.
Ma se non bastassero le decine di gol che ha messo a segno e neanche l’importanza di alcuni di essi, la cosa che più esalta di quest’uomo è la fame. E’ su ogni pallone, pressa per 90 minuti sui difensori e sul portiere, sgomita, difende addirittura e contrasta ogni essere vivente che lo intralcia nella corsa verso la porta. Ciro ci tiene davvero; infatti, ogni volta che un’azione non va a buon fine o quando lui stesso sbaglia un gol si nota subito dalle sue espressioni e dai movimenti che è amareggiato quanto i tifosi. Converte la rabbia in fame e la fame in carburante, il gol poi viene da sé.
E’ così coinvolgente vederlo giocare, che va oltre il calcio o lo sport stesso.
Ciro emana la stessa rabbia di Lebron James quando si trova costretto a mettere a referto una tripla doppia per non far affondare il veliero dei Cleveland Cavaliers.
Ciro ha la potenza, la versatilità e l’affidabilità di Kawhi Leonard dei San Antonio Spurs.
Ciro è un atleta professionista come Kevin Garnett, Javier Zanetti o Federica Pellegrini.
Ciro è l’assolo di Jimmy Page in “Stairway to Heaven”.
Ciro è la carica di “Princess of the Universe” dei Queen.
Ciro è, Ciro c’è e lasciate che sia così.