Dopo lo straordinario successo di Milano, anche Roma ospita la mostra: “Munch. Il grido interiore”, che celebra l’artista norvegese a 80 anni dalla morte.
A Palazzo Bonaparte, dopo diversi anni di assenza, questa retrospettiva cercherà di investigarne l’universo narrativo oltre che la mera produzione artistica, vagliando anche il suo percorso umano. Sì perché, come già per quella meneghina, anche per l’occasione capitolina non si tratta solo di un’esposizione di quadri (più o meno famosi), ma anche di taccuini, fotografie e persino filmati, che indagheranno tanto il Munch pubblico quanto quello privato.
In tutto: 100 opere, inclusa una delle versioni litografiche de “L’urlo” – quella del 1895 – che il Museo di Oslo a lui dedicato ha generosamente dato in prestito.
Figura quasi leggendaria nel panorama artistico del ‘900, Edvard Munch lo è diventato per più di un motivo. Indubbiamente, oggi, è universalmente riconosciuto come un innovatore dell’arte europea, sia per il carattere globale della sua ricerca, per la capacità di rompere gli schemi e sviluppare un uso personalissimo del colore, che per la pioneristica capacità introspettiva (peculiarità dei posteri), capace di trasmettere sensazioni e sentimenti all’avanguardia nel pensiero coevo.
Tra i primi a discutere della stessa affidabilità della visione, l’artista, peraltro, è considerato anche tra i padri dell’Espressionismo astratto. Grazie alla Psicologia e alla nascente Scienza Ottica, e consapevole di quanto le emozioni influenzassero la realtà, nelle sue opere non riproduce fedelmente la realtà, quanto le espressioni sensoriali che essa può suscitare. Un esempio? Nel celebre “Urlo”, il soggetto, il cielo e il paesaggio circostante sono, a ben guardare, onde sonore…
La sua è pittura immediata e potentissima; una produzione allucinata e complessa che la mostra permette di penetrare, pennellata dopo pennellata, partendo dagli esordi più naturalistici e più chiari, alla progressiva evoluzione verso una visionarietà sempre più densa di sofferenza, in cui i temi della paura e della malattia diventano preponderanti, e in cui le ombre, inquadrate nell’humus culturale nordico, raccontano anche la crisi profonda dell’Europa di quegli anni.
I volti senza sguardo, i paesaggi stralunati, la necessità di comunicare dolori e angosce indicibili, fusi in una pratica artistica basata più sulla ricerca del senso della morte che su quello della vita, sono riusciti a trasformare le sue opere in messaggi che parlano allo spettatore di ogni tempo. Ciò, senza tener conto che la sua è un’eredità imponente, da investigare senza semplificazioni, anche attraverso la drammaticità della vicenda autobiografica.
La vita di Munch, infatti, è stata segnata da grandi e precoci dolori: la perdita prematura della madre a soli cinque anni e della sorella, la morte del padre e la tormentata relazione con la fidanzata Tulla Larsen sono stati il materiale emotivo primigenio su cui ha cominciato a tessere la sua poetica.
Una vicenda umana che, nella sua opera, si spinge oltre il contingente, esprimendo un sentimento di inquietudine, noto anche come “spleen”.
Formatosi a Parigi ed appresa la lezione cromatica di Gauguin, Van Gogh e Toulouse-Lautrec, Munch seppe sintetizzare un’ampia ricerca di poetica con una declinazione tutta personale, intrattenendo anche un solido rapporto con il Rinascimento italiano, che si incontra lungo il percorso della mostra (composto da sette sezioni, più una sala “immersiva”).
Ponendo l’accento su tecniche diverse, il viaggio in tale immaginario, qui, ne mette in risalto la pronunciata sensibilità e l’indipendenza dalle convezioni, anche nella scelta dei soggetti. L’esigenza di comunicare il proprio “grido interiore” accompagnò Munch per tutta la vita e la mostra nel Palazzo di piazza Venezia vi ruota proprio intorno, con i suoi blocchi di colore uniformi e le prospettive discordanti; le esperienze emotive e il puro senso della ricerca di forze invisibili che animano l’universo: per rendere visibile l’invisibile.
Sono opere che, allora profetiche, sono oggi incredibilmente contemporanee e continuano a parlare di – e alle – preoccupazioni di uomini e donne moderni. Sono opere pressoché impossibili da sfuggire.
La mostra romana chiuderà il 2 giugno 2025 ed è curata da Patricia G. Berman, con Costantino D’Orazio; e realizzata assieme al Museo Munch di Oslo. È prodotta e organizzata da Arthemisia; gode del patrocinio del Ministero della Cultura, della Regione Lazio, del Comune di Roma-Assessorato alla Cultura, della Reale Ambasciata di Norvegia a Roma e del Giubileo 2025-Dicastero per l’Evangelizzazione. Main partner, Fondazione Terzo Pilastro-Internazionale, con Poema.
Info: www.arthemisia.it; www.mostrepalazzobonaparte.it